
( a cura di Antonio De Salvia)
Presso l’Eremo del Silenzio (www.eremodelsilenzio.it ex-carcere “le Nuove”) nei primi mesi del 2013 è stato attivato un percorso di riflessione e formazione a cui ha partecipato un gruppo di 15-20 persone guidato da Padre Gianfranco Testa, sacerdote e missionario della Consolata, impegnato nella ricerca a far emergere tra i rapporti interpersonali la pratica della mediazione, del perdono, della riconciliazione.
L’intento dichiarato in questo primo modulo ha proposto di rilevare e rivelare la presenza di una dote umana che contiene potenzialità verificabili ed efficaci, in grado di cambiare i paradigmi e i modelli di comportamento standardizzati, e la prospettiva delle proprie azioni, anche quando si evidenziano con le caratteristiche della re-azione uguale e contraria all’offesa, al torto, alla violenza ricevuta e subita.
Adottando il metodo interattivo, questo modulo è riuscito a valorizzare contestualmente la centralità dei soggetti e le dinamiche di gruppo: tutte le attività sono state organizzate nella costituzione di un laboratorio sperimentale e in corso d’opera, nel quale l’essere umano non perde le proprie specificità e prerogative anche se e quando è promotore e fa ricorso all’offesa morale e penale, e causa sofferenza, rabbia, risentimento, ostilità nella vittima e in chiunque possa risentire le conseguenze dell’offesa.
L’interrogativo che ci siamo posti: … “e se, invece di cristallizzare la propria rabbia, il desiderio di vendetta, la volontà di alimentare il risentimento e di erigere gli steccati della contrapposizione provassimo – unilateralmente e in modo spontaneo- a donare a noi stessi la scelta e la decisione di perdonare?”.
Per rendere comprensibile e proponibile la risposta Padre Testa ha fatto riferimento all’esperienza – capitata a tutti – della ferita. Qualsiasi lesione, procurata o subita, deve essere sottoposta alle cure adeguate, se si vogliono evitare conseguenze dannose: pulizia, disinfezione, suturazione, medicazioni e controlli periodici. Quando è stata inferta, la ferita ha causato dolore; quando è stata sottoposta a cura, ha causato sofferenza alla persona, ha lasciato la cicatrice, segno visibile della lesione e del trauma patiti.
Al di fuori di metafora anche l’offesa, l’atto violento provocano sentimenti ed emozioni di ostilità verso colui che li ha causati. Anche il ricordo persiste e costituisce un’esperienza del passato che non può essere cancellato, né conviene depositarlo nella dimenticanza. Quell’esperienza passata, però, può essere sottoposta ad un’operazione di pulizia, di analisi e di revisione critica: “Come posso depotenziare la carica della re-azione emotiva e del ri-sentimento? Come posso ricostruire l’equilibrio funzionale nella mia esistenza togliendo incisività alla risposta re-attiva e ostile verso l’offensore? Come posso risolvere il problema di sentirmi in allarme, in tensione, disposto a utilizzare tempo, energie, risorse per alimentare il potenziale della mia guerra verso l’offensore?”.
La riflessione conseguente a tali interrogativi ci ha portati ad ammettere che:
La vittima sarebbe ingiusta verso se stessa se rimanesse ancorata al rito, alla prigionia, allo status del dolore e della rabbia: essa rimarrebbe ancorata al ruolo della persona offesa fino a riconoscersi l’identità della parte lesa e fino a concepire per sé la pervasività e l’ineluttabilità di un destino malefico e duraturo.
Anche in termini puramente economici, il dispendio di risorse, la perdita di tempo per il mantenimento della condizione dell’odio sarebbero più dannosi ed estenuanti della pratica del perdono.
Perdonare non significa assolvere la colpa e la responsabilità personale dell’offensore e neppure equivale ad impedire a se stessi di indignarsi per le offese rivolte a se stessi e verso i più deboli; perdonare significa essere capaci di regalarsi un’altra opzione di risposta possibile e più efficace.
Il perdono non toglie il dolore e neppure cancella il passato, ma è una spinta che aiuta la persona a rimettere in moto la propria esistenza secondo una prospettiva e un orizzonte più pragmatico e utile sia per se stesso che per la società nel loro divenire.
Il perdono è un dono che si fa innanzitutto a se stessi; è, pertanto, un atto di egoismo, di benevolenza verso se stessi e non contempla il presupposto dello scambio (do ut des); è un atto non condizionato che ripaga il donatore, perché, prima di essere rivolto ad un altro, è rivolto a se stesso.
Il perdono non è un atto di debolezza, di fragilità, di bonomia, ma piuttosto un atto di coraggio, di responsabilità: migliora la custodia e la dinamicità del proprio essere.
Il perdono è un atto di giustizia, di rispetto, di benevolenza verso se stessi: dimostra di essere una terapia, una cura che lenisce il dolore e toglie vigore alla forza della vendetta e alla autolegittimazione a re-agire con altrettanta violenza ed aggressività.
Il perdono è dimostrazione di sapienza, di conoscenza aperta ad orizzonti più ampi: è capacità di rispondere alla violenza e all’offesa con la non-violenza e la tolleranza; è capacità di spostare la contesa sul piano funzionale: “A che mi serve? Cosa rischio? Come posso ricomporre, restaurare il mio ordine interiore? Come posso riacquistare la libertà e l’autonomia della mia identità che –senza rinnegare l’offesa, la violenza, il reato subiti- possa essere ricostruita e prospettata verso una dimensione compatibile con la mia dignità? Come posso rielaborare l’esperienza negativa dell’offesa per ripropormi con le mie riconquistate potenzialità a voler essere e poter essere?”.
Il perdono concesso a se stessi non equivale a indifferenza verso l’altro, neppure verso il proprio offensore: nel riconoscimento della propria identità, del sé, è riconoscibile l’alterità, l’interdipendenza io-altro; io sono simultaneamente diverso e uguale all’altro e mi considero disposto a fare all’altro ciò che vorrei fosse fatto e in effetti faccio a me, semplicemente perché potrei trovarmi anch’io nella parte dell’offensore. Il perdono verso se stessi diventa l’azione propedeutica, il precursore della riconciliazione con l’offensore.
Proprio il tema e la pratica della riconciliazione rappresenta l’ovvio sviluppo del tema e della pratica del perdono. Il gruppo dei partecipanti ha espresso la propria adesione e l’impegno a proseguire questo percorso, che finora ha avuto e seguito il filo conduttore esposto in modo geniale e persuasivo da R. Casarjian:
“La rabbia cronica non ci permette di comprendere che (…) noi siamo responsabili di farci afferrare da essa o di prendere la decisione cosciente di lasciarla andare e liberarcene.
(…) Se siamo disposti a permettere ripetuti comportamenti inaccettabili in nome del perdono, molto facilmente stiamo utilizzando il perdono come una scusa per non assumere la responsabilità di prenderci cura di noi o per evitare di fare dei cambiamenti.”
Grati per il dono ricevuto e per essere stati invitati a prendere il largo e riflettere sulle potenzialità benefiche e curative del perdono, i partecipanti hanno espresso l’impegno a recepire i contenuti e a mettere in atto le prassi della pedagogia del perdono e a proporre la possibilità di condividerla, adattando modalità e strumenti, anche in ambiti che manifestano la presenza del disagio e dello svantaggio sociale.